22/11/2018

Gita di famiglia

di Valeria Sechi
Vita da mamma

La Sardegna, la mia Sardegna, celebre soprattutto per le sue coste ed il mare cristallino, custodisce anche nell’entroterra tesori preziosi e scenari spesso inaspettati. Così, da buona mamma sarda “adottata dalla penisola”, decido di mettere a parte i miei figli (come sempre riluttanti) di questo suo volto inusitato. Alla prima occasione utile, come m’ero ripromessa, pianifico il tutto. Destinazione: foreste pietrificate!

Poiché la Sardegna vanta molti di questi suggestivi scenari naturali, scelgo con cura quale andare a visitare. Potremmo optare per la provincia di Oristano, con la famosa foresta di Zuri Soddi’, ma perché non spingersi fino in terra di Sassari, a Martis? Deciso. Caricati in macchina armi e bagagli, zaini e figli, borracce e viveri, mi proietto verso una di quelle gite istruttive che noi genitori tanto amiamo e che i nostri figli tanto detestano. Da mamma a improvvisato “tour operator”, documentata a dovere, tengo una “lectio magistralis” on the road sullo straordinario fenomeno che lì studieremo da vicino: tra i 30 e i 15 milioni di anni fa, un processo di fossilizzazione ha convertito la lignina in silicio, trasformando ciò che un tempo era cosa viva in pietra. Poco più di tre ore di viaggio e ammireremo uno spettacolo unico: una foresta pietrificata che si estende per un’area di circa 100 km2. Mi sento un po’ Piero Angela: che soddisfazione!

Giungiamo a Martis poco prima dell’ora di pranzo e, temendo che la fame possa distogliere l’attenzione dalla mia “fantastica ed erudita lezione”, obbligo subito il “clan” al completo all’elegante chiesa di San Pantaleo. Solitaria su uno sperone di roccia, questa “cattedrale nel deserto” è costantemente invasa da una calda luce che si riflette sulla sua pietra bianca, tra simboli sconosciuti e misteriosi: spirali, fiori e stelle incisi da antichi frequentatori. A far da cornice ai decori vi sono ampi archi ad ogiva, volti a crociera, il ruvido e geometrico profilo del campanile e qualche lacerto di affresco blu. Anche i ragazzi ne sono colpiti, e la mamma gongola.

Oltre la chiesa si apre la valle del Rio Carrucana, con la sua celebre distesa di “pietre non pietre”. Qui, milioni di anni fa v’erano laghi, boschi e forse piccoli vulcani che, come in un crogiolo, hanno dato vita al paesaggio che stiamo ammirando. Nella vasta e brulla radura, in ordine sparso, questi resti incredibili sembrano spezzoni di colonne abbandonati. Paiono a volte sprofondare nel terreno, quasi cerchino di ritirarsi nella terra scura al riparo dal vento caldo, quasi cerchino di essere lasciati in pace, di essere dimenticati. Altre volte, al contrario, emergono dal terreno austeri e solenni, quasi desiderosi di raccontare la propria storia. Mi rendo subito conto che la mia fantastica dissertazione scientifica, tanto diligentemente preparata, non aggiungerebbe nulla a quello scenario: tutto semplicemente da abbracciare con gli occhi e percepire sulla pelle. Voler spiegare quel luogo sarebbe un po’ come privarlo della sua magica atmosfera, perfetta per inventare una storia. Una di quelle storie per bambini che parlano di malefici incantesimi, di sortilegi che trasformano tutto in pietra, di maghi, streghe e stregoni vendicativi. Ma il sole scalda speranzoso e la brezza fa ondeggiare i radi cespugli al suono delicato del silenzio: sarebbe allora una di quelle storie in cui fate e folletti fuggiti attendono l’arrivo di chi dissiperà il maleficio e farà rifiorire la foresta.

E le domande dei figli prima indifferenti si susseguono, indagano sul perché e sul per come, sul chi e sul quando. Mentre mani piccine accarezzano gli antichi tronchi dormienti, guardo i miei figli giocare a maghi e fate nella valle di Carrucana, appena fuori Martis, in una giornata baciata dal sole. Forse questo è il vero scopo di ogni viaggio, piccolo o grande che sia: portare la propria mente a vagabondare oltre i confini del corpo.

Mi dispiace sig. Angela, questa volta fantasia batte scienza 1-0.

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